Marco Polo scrive a Kublai Khan nel suo racconto-viaggio:
“Sono giunto in una grande città che gli abitanti chiamano, nella loro lingua, “Città della poesia”. Sui muri di tutti i palazzi sono affisse preziose pergamene: e ognuna riporta un testo poetico vergato in caratteri d’oro. I monumenti al centro delle piazze sono cubi di marmo, a volte piccoli, a volte molto grossi, su ogni faccia dei quali appaiono incise, ben visibili, le parole delle poesie più belle e più famose. Gli abitanti si fermano spesso a leggerle e poi, camminando, le ripetono fra sé e sé a voce alta, oppure le vanno recitando ad altre persone. Capita a volte di vedere dei capannelli di uomini intenti a leggere sui muri una poesia appena affissa; e qua e là è facile imbattersi in piccoli palchi, da dove un attore propone dei versi alla gente. “Chissà come saranno onorati i poeti in questa città” ho detto all’uomo che mi conduceva lungo le strade e mi mostrava orgoglioso i monumenti e i palazzi che riportavano le poesie più belle. Lui mi ha guardato con meraviglia, come se volessi prenderlo in giro, e ha scosso energicamente la testa. “Ma niente affatto, mi ha detto, qui sarebbe vergognoso affermare di aver scritto anche soltanto un verso”. Con la pazienza di chi parli ad un bambino, mi ha spiegato: “Le poesie vengono dagli dei. Gli uomini sono solo un tramite. Non lo sapete anche voi? Le poesie vengono scritte di nascosto e gli autori le attaccano furtivamente ai muri delle vie, badando bene a non farsi riconoscere. Se un pazzo sostenesse di essere l’autore di una poesia, dapprima verrebbe redarguito; poi, se insistesse, verrebbe multato e alla fine, se non si pentisse della sua follia, verrebbe esiliato”. Ha aperto le braccia per indicare tutte le case e le vie intorno e mi ha detto con fierezza: “Tutte queste poesie che noi leggiamo e impariamo a memoria e veneriamo come parole divine, tutte queste poesie mi creda sono anonime”.”
I. Calvino
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